PEARL JAM TRIESTE 2014 > Special selezionato e pubblicato da PearlJamOnline.it

di Aurora Bincoletto

Le foto pubblicate all’interno dello speciale sono di Laura Ferretti (Flickr.com)

Un concerto iniziato in anticipo, questo proprio non me l’aspettavo. Immediatamente però si fa strada in me il pensiero che se dei musicisti come i Pearl Jam – e come loro ce ne sono veramente pochi – scelgono di salire sul palco prima del previsto, devono veramente avere voglia di regalare al loro pubblico un concerto epocale, magnifico, colmo, intenso ed avvolgente. Diversamente, d’altronde, non sarebbe potuto essere. Arrivo giusto in tempo dentro allo Stadio Nereo Rocco di Trieste, con le mie amiche, conosciute in treno la sera precedente, ma già unite in una sorta di “fratellanza musicale” che ci ha reso subito sorelle. Perché la musica accomuna gli estranei più di un buon piatto di pasta mangiato assieme…

Volti entusiasti, ancora prima d’entrare, tutt’intorno a noi. Noi che eravamo la maggioranza, noi generazione anni ’80 cresciuta a “Pane e Grunge Made in Seattle” quelli che si chiedevano dalla sera prima se “i nostri” avrebbero suonato Alive, Jeremy, Rearviewmirror o Yellow Ledbetter. Il cielo va lentamente scurendo, ma c’è ancora luce in lontananza. Guardo l’orologio ed il suo incipiente ticchettio, poi ad un tratto: il boato. Alle 20:50 qualcuno si accorge che “i nostri” stanno già salendo sul palco. Come non riconoscere Eddie Vedder nella sua camicia scozzese che tanto lo caratterizza!? Si inizia…

Leggeri e morbidi con Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, Low Light e Black, quasi a voler accompagnare lentamente il giorno che se ne va, con un velo di nostalgia. Presto si fa buio e Sirens riecheggia, nella sua novità, assieme a 30.000 voci che scandiscono ogni parola come se l’ascoltassero da sempre. Poi, quasi per gioco, come se finora si fosse “scherzato” con quelle meravigliose ballate, arriva il momento di saltare, e non c’è avviso di divieto al “pogo” prima dell’entrata che tenga. La cinquina Why Go, Animal, Corduroy, Getaway, Got Someesalta uno stadio colmo di gente che non aspettava altro, come fosse un’unica anima danzante. Passiamo a Given to Fly, il capolavoro firmato McCready-Vedder, uno dei pezzi principali dell’album “Yield” del lontano 1998, di cui ascolteremo subito dopo Leatherman, canzone più corta, che sembra quasi fare da intro a Lightning Bolt che, non a caso, con tutto il suo vigore, dà il titolo al nuovo album. A seguire Mind Your Manners, accattivante e audace, come il suo significato.

Dall’oggi al domani, con una padronanza che solo i creatori sanno avere, facciamo un’altro salto nel passato e ascoltiamo Deep dal primo album, “Ten”. Vedder si esercita con noi, con il suo italiano, cosa che apprezziamo molto già dal primo quarto d’ora del concerto. Arrivati a questo punto, pendendo tutti ulteriormente dalle sue labbra, ci apre il suo cuore chiedendoci di salutare assieme a lui il suo amico scomparso “John Vedder” e noi non facciamo mancare tutta la nostra solenne coesione sulle note di Come Back. Lo Stadio si trasforma in un’onda di luci e la intoniamo tutti la melodia scritta originariamente per Johnny Ramone. Arriva il momento di Even Flow e non ce n’è per nessuno, non si scappa da un “flusso costante” con McCready che si esibisce in un’assolo con la chitarra sulle spalle. Quasi a ringraziarci dell’intensità della nostra vicinanza di pochi istanti prima, Vedder ci regala una voce perfetta, come se non fossero passati 23 anni dalla prima incisione, mentre i suoi compagni suonano con un vigore da ragazzini le note che hanno cresciuto sul serio i “ragazzini” che ora hanno di fronte.

Seguono Down, Unthought Known, Infallible, la sempre sconcertante Do the Evolution e la mia attesissima Rearviewmirror, come non l’avevo mai ascoltata in nessuna delle miriadi di registrazioni live che si possono trovare sul web. Da brividi. Ma ci sono ancora altri capolavori da cantare a squarciagola per noi 30.000, ormai in delirio. Eddie intona Let Me Sleep ma è con Chloe Dancer/Crown of Thorns – eseguita su richiesta di un fan sotto il palco a cui Vedder regala i suoi migliori sorrisi – che capisci quanto ne sia valsa la pena di affrontare viaggio, spese e aspettative.

Jeremy non poteva mancare e la si canta con tutta la coscienza dell’amarezza del suo significato, State of Love and Trust ci rinvigorisce, perché a qualcosa bisogna pur credere. Wasted Reprisesarà il preludio di Life Wasted, che come il nero “sta bene con tutto” e arriva anche l’immancabile quanto necessaria Porch. Potrebbero continuare all’infinito e potrebbe ancora non bastare…

L’ora di Better Man è giunta, come pure quella di Once e subito dopo immediati arrivano, chiarissimi, gli accordi di Alive, seguiti dalle grida di chi non aspettava di meglio, uno stadio intero insomma. Gli spettatori del prato srotolano, a sorpresa, una bandiera dell’Italia con su scritto “We Keep on Rockin’ in the Free World with You” e tempo trenta secondi la batteria di Cameron scandisce la velocità con cui sarà eseguita la cover di Neil Young.

Come concludere un concerto così? Con la canzone che non appartiene a nessun album, Yellow Ledbetter, come a dare una morale a tutto il concerto: non importa l’anno d’incisione e nemmeno il disco d’appartenenza, ma come te la sai vivere la musica.

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